Di Bianca Libera Riva
Il carcere è, forse, un mondo sconosciuto e misterioso per la maggior parte delle persone che non l’hanno mai frequentato. Se ci dotassimo di una gigantesca, immaginaria, lente di ingrandimento vedremmo una moltitudine di persone popolare degli edifici angusti, bui e stranissimi. Mettendo progressivamente sempre più a fuoco questa lente, vedremmo sempre più dettagli: alcune di queste persone in carcere ci lavorano, altre sono persone detenute. Queste ultime sono divise in gruppi e abitano in spazi separati, il primo discrimine è il sesso: maschi da un lato e femmine dall’altro. A ben vedere la popolazione maschile è di gran lunga preponderante sia fra il personale che fra le persone detenute. Se poi, per scrupolo e perché animate da una consapevolezza sociale matura e aperta, volessimo oltrepassare la superficie, metteremmo la lente ancora più a fuoco e vedremmo così spuntare l’identità di genere! Eccomi, io mi trovo qui! Mi chiamo Bianca e sono una donna trans di Milano, in carcere dal 2020.
Noi donne trans siamo immerse in questo mondo caotico e ne costituiamo una piccolissima parte! Siamo un granello di sabbia nell’occhio, impossibile da rimuovere e difficile da sopportare, che dà tanto fastidio. Siamo così piccole, siamo circa un millesimo del totale delle persone detenute, che fino a poco fa nessuno si curava di noi e, a tutt’oggi, siamo ancora a dir poco sconosciute. Siamo un corpo estraneo che in qualche modo deve essere gestito. Mal sopportate, veniamo considerate e dislocate nei modi più disparati e creativi.
Io sarei felice, ora, di raccontarvi la mia esperienza, focalizzandomi in particolare su tutto ciò che ho vissuto nei miei primi, strani, e orribili anni di carcere. Sono stata gettata nel carcere di San Vittore, a Milano, in un reparto protetto, ossia senza contatti con gli altri, separata dai cosiddetti detenuti comuni. Mi sono trovata nel momento più crudo della pandemia Covid e ciò ha fatto sì che, per un buon periodo, fossi l’unica donna trans in tutto il carcere. Ma la cosa più incredibile e, direi, terrificante è che questo reparto protetto sia laddove vengono collocati i sex offender. Diciamo che tutta questa storia mi ha sconvolta e ha dato alla mia vita una grossa sterzata. La Bianca è stata disfatta e ancora oggi mi sto rifacendo. La demolizione è iniziata subito, senza che io me l’aspettassi, perciò inizialmente non sono riuscita a evitarla e mi sono trovata indifesa. Ho subito la rimozione delle mie caratteristiche peculiari e identitarie nel tentativo di sottopormi a un processo di uniformizzazione con gli altri. Ma gli altri che si trovavano con me, erano talmente diversi da me che mi sono subito sentita incompresa e “violentata”. Ho dunque cominciato a oppormi a questo processo: io, che ho fatto della diversità la mia essenza, mai avrei accettato questa equivalenza. Con gesti, parole e anche atti giuridici ho dovuto riscoprirmi e riappropriarmi di quello che sono sempre stata, del mio vero vissuto e del mio corpo. Sì, il mio corpo!
La struttura sessista del carcere impatta e annienta (è fatta per annientare!) chiunque non sia maschio e forte. E lì, il maschio era un sex offender. E io, sex worker a lato dei sex offender, possedevo un corpo sessuato e un lavoro sessuale che erano intesi come un mix devastante. In quel momento era solo terrorizzata per tutto quello che mi stava capitando e pensavo solo a orientarmi. Così mi hanno dato un angolino tutto mio, piccolo piccolo, in cui stare e pochine cose da fare. Separarmi dai separati li avrebbe protetti dal dissolversi delle loro certezze.
Ma il mio corpo è anche il veicolo di relazioni con altri ed è subito diventato ciò che creava curiosità e tentativi d’approccio per una conoscenza. Ciò veniva visto nell’ottica della mia professione e interpretato come mio tentativo di adescamento. La “stanza per me”, quella che mi è stata assegnata, squallida e spoglia, è stata da me sottoposta a un processo di femminilizzazione, semplicemente per rendermi più facile trascorrervi tutto il mio tempo. Ciò veniva interpretato come la creazione di una sorta di casa d’appuntamenti che serviva come richiamo, espressamente diretto all’altra popolazione del reparto che in effetti cominciò a venirmi a conoscere incuriosita. Sono nate così alcune relazioni amichevoli e positive con un ristretto gruppo di persone, ma purtroppo anche tensioni legate a stereotipi, pregiudizi, gelosie e incomprensioni con altre persone. Mio malgrado, quindi, sempre venivo additata, sospettata, sorvegliata a tal punto che questi ridicoli pregiudizi del personale si trasformarono tacitamente in certezze per alcune persone detenute le quali spesso mi hanno rivolto parole, attenzioni e atti sessualmente molesti. Se da un lato è estremamente vietata qualsiasi forma di relazione affettiva consensuale, dall’altro la molestia è quasi considerata nella normalità delle cose. Ho subito atti a cui mai avrei dato un consenso, non gravissimi forse, ma spesso si trattava degli stessi atti che avevano portato quei molestatori in carcere. Ho capito poi di essere stata in qualche modo sottoposta a quello che potrei chiamare un disciplinamento sociale forzato dalla sessualità e dall’identità.
Possiamo forse affermare che questa nostra immaginaria lente di ingrandimento ci abbia fatto scorgere anche solo un piccolo anelito educativo e risocializzante? Forse servirebbe uno strumento più potente, forse non c’era proprio nulla del genere, perché abbiamo scorto solo cose orribili da osservare, ancor più terribili da dire!
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BIO: Bianca Libera Riva, classe 1974, nata a Milano, cresce a Quarto Oggiaro e poi cerca di trovare la bellezza nel mondo viaggiando in luoghi in cui può essere libera di esprimere la propria identità di genere. Vive e si ciba di arte, lavora per anni come sex worker e nel 2020 arriva l’esordio nel cinema. A giugno dello stesso anno è stata privata della libertà. Continua il suo impegno politico all’interno del carcere di Reggio Emilia.
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Fonte: GATTEBUIE. Voci femministe sul carcere, DWF (143-144) 2024, 3-4, p.51-53
Per scrivere a Bianca è necessario indicare il suo deadname sulla busta. Non vogliamo pubblicarlo per non esporla e non procurarle più disagio di quanto già comporta la sua situazione, a causa della rigidità binaria e transfobica del carcere.
Potete inviare le lettere da destinarle alla mail transenne@riseup.net o farcela avere a mano sempre contattandoci a questa mail o trovandoci alle varie iniziative sulla detenzione trans che organizziamo, indicando il mittente se volete ricevere risposta. In questo modo possiamo dare a Bianca la possibilità di intraprendere una corrispondenza autonomamente con chi le scrive una volta che risponderà via lettera all’indirizzo mittente che le farete avere.
