CORPI ESTRANEI. L’ESPERIENZA DI BIANCA

di ANNA ROSARIO D’AMARO – Da: DWF, Gattebuie. Voci femministe sul carcere (143-144) 2024, 3-4

Ho conosciuto Bianca nel 2020, lavoravo al Mit (Movimento identità trans) dall’anno precedente, ero stata assunta un mese prima della sindemia Covid-19 per un lavoro di poche ore a settimana nella riduzione del danno in ambito di lavoro sessuale che, durante l’emergenza, si è trasformato in un lavoro a tempo pieno per la realizzazione di una raccolta fondi per aiutare sex worker in difficoltà.

La lettera di Bianca è arrivata un giorno di inverno dell’anno successivo, ci scriveva da San Vittore, un posto che lei stessa definiva “un castello del terrore di fine Ottocento”. Lo stampatello sulla carta scandiva le sue parole ricolme di ansia e paura, ci raccontava di essere reclusa in una sezione popolata da uomini sex offender, ovvero autori di crimini sessuali. L’avevano inserita in quel reparto per proteggerla, là veniva collocato chi, se inserito in altri spazi, avrebbe rischiato soprusi da altre persone detenute. Bianca peroò era stata, fuori da quel luogo, una lavoratrice sessuale e il rischio di incontrare un cliente violento ed essere detenuta con il suo aguzzino era alto. Era chiaro da subito lo stato di solitudine e isolamento che si trovava a vivere, pensai che il minimo che avrei potuto fare per dimostrare solidarietà a una compagna privata della propria libertà era farle sapere che ci saremmo state per lei come associazione, unirci a lei come compagne di lotta e divenne per me un imperativo morale darle un sostegno concreto. Iniziammo una conoscenza epistolare, ricordo di aver aspettato con ansia le sue lettere, volevo conoscerla e sapere come stava, avevo paura che la detenzione, l’isolamento, l’impossibilità di ricevere colloqui a causa della sindemia la facessero crollare. Dalle sue lettere emergeva la tristezza di una vita che cambia tragicamente in cinque minuti e quaranta secondi. Le circostanza che l’hanno portata alla detenzione si sono verificate in un momento particolarmente bello della sua vita, aveva girato un film che iniziava ad essere presentato in vari festival e raccontava con estrema gioia il fatto che fosse stato presentato a Berlino. Era orgogliosa e fiera ma tutto questo si era dissolto in una notte e percepiva la sua vita avesse subìto una frenata improvvisa e violenta che l’aveva scaraventata in un’altra dimensione. Nonostante questa immensa tristezza, Bianca non perdeva la speranza e con l’associazione al suo fianco si sentiva meno sola. Col passare dei mesi conobbi la sua avvocata e il nostro rapporto poté subire una svolta importante, finalmente arrivarono i video colloqui. Io a Bologna potevo vedere Bianca detenuta a Milano, riflettevo sulla potenza di poter accorciare le distanze per tutte quelle persone migranti e detenute che altrimenti non avrebbero l’opportunità di vedere volti amici, amanti e familiari per mesi. L’appuntamento settimanale con Bianca continua tutt’oggi. Durante i video colloqui Bianca mi raccontava quello che viveva, le ingiustizie subite e che anche lei voleva fare qualcosa per la comunità trans. Il giorno del Tdor, Transgender Day of Remembrance, le mandai, come mi aveva chiesto, i dati dei crimini d’odio che ogni anno il Transgender Europe si premura di condividere. Lei li portò nella sezione e in un gruppo di mutuo aiuto spiegò cosa fosse la transfobia, spiegò che valore avesse per la comunità trans quella ricorrenza, di come non fosse solo un giorno di ricordo di chi è stata strappata alla vita, ma il giorno in cui la comunità trans chiede alla società il conto della violenza subita quotidianamente, un giorno di lotta in cui le persone trans si riappropriano dello spazio che è stato loro preso per gridare la propria rabbia e chiedere di essere ascoltate. Era fiera di aver dato un contributo in quella giornata ma era consapevole che le persone con cui aveva parlato non potevano comprendere quello che stava dicendo. Mi disse che era stanca di trovarsi reclusa con persone così distanti dal suo vissuto, voleva poter dividere questo spazio di dolore con altre donne trans, per essere compresa, per poter parlare nella tessa lingua, quella della strada, quella delle esperienze di vita dei corpi plasmati dall’identità.

Parallelamente tutte le restrizioni dettate dall’emergenza sanitaria iniziarono a cadere e io entrai per la prima volta nel carcere di Reggio Emilia.

La prima impressione di quanto il carcere sia un luogo intrinsecamente violento e opprimente l’ho vissuta nell’incontrare la polizia penitenziaria. Persone ostili, annoiate, sempre infastidite a qualunque richiesta. Il primo giorno mi fecero aspettare fuori dall’istituto prima di concedermi la possibilità di entrare, pensai che quell’attesa fosse dovuta al fatto che non mi conoscessero, in realtà questa attesa è continuata per i successivi tre anni, come a sottolineare il potere di farmi perdere tempo, di mettere in discussione la mia presenza straordinaria lì dove tutto risponde a regole e burocrazia. Superato questo livello e i controlli del metal detector entrai in questo lunghissimo corridoio che conduceva nella sezione Orione, pensai a quanto crudele e beffardo fosse dare il nome della costellazione più splendente a un posto del genere. Nella sezione erano presenti dodici donne trans, tutte donne migranti tranne una, alienate completamente dall’uso della terapia. Quando parlo di terapia intendo le massicce dosi di psicofarmaci che vengono somministrate alle persone detenute, una seconda gabbia chimica che, per alcune, è l’unica strategia per sopportare la detenzione. L’unica attività prevista per le donne detenute era il teatro il martedì, attività a cui partecipavano solo due detenute. Non erano previsti programmi scolastici, come nessun’altra attività di alcun genere, l’unica ora d’aria a cui avevano accesso era concessa una volta a settimana, non avevano possibilità di lavoro e soprattutto ogni richiesta che venisse fatta tramite domandina o la supplica all’educatore passava inosservata. La maggioranza delle donne trans presenti nella sezione Orione non aveva nessuno che le supportasse nei loro percorsi; molte erano assistite da avvocati d’ufficio costantemente assenti e non esistevano progetti per l’inserimento lavorativo. Inoltre, nessuna di loro poteva proseguire il proprio percorso di affermazione di genere: non avevano accesso agli ormoni e ricevevano solo cerotti anticoncezionali; non avevano accesso a consulenze endocrinologiche e meno che mai a un supporto psicologico che potesse essere utile anche per affrontare la detenzione. Per le donne detenute in quella sezione il carcere era uno stillicidio, una serie infinita di giorni vuoti, lontane dalla loro vita, dai loro affetti, costrette a un’esistenza scandita da dolore e noia.

Riportai le mie osservazioni al Mit, descrissi quello che avevo visto e chiesi loro di attivarci per cambiare quella situazione, mi diedero carta bianca e massima fiducia. Al Mit inizialmente per questo progetto non avevamo fondi quindi servivano soldi per le attività, attività diversificate; un sostegno legale appropriato, la possibilità di proseguire i percorsi di affermazione di genere, avevano bisogno di un ascolto e di qualcuno che le aiutasse a mettersi in contatto con la famiglia o avesse a cuore il loro futuro. Cominciai con l’avvocata Antonietta Cozza a visitare una volta alla settimana il carcere di Reggio Emilia, iniziando a conoscere le donne, raccogliendo le loro esperienze di vita e cercando di capire come potessimo offrir loro un aiuto tangibile. L’avvocata decise poi di seguire gratuitamente molte di loro. Con i soldi raccolti durante gli eventi del Mit e le collette che io e Antonietta facevamo, siamo riuscite per molto tempo ad acquistare shampoo, bagnoschiuma, caffè, smalti, tutto quello che riuscivamo a far entrare dentro il carcere. Ben presto mi sono resa conto che quell’impegno non era sufficiente. Le donne trans detenute erano pochissime rispetto alla popolazione complessiva del carcere e nessuno si occupava di loro, avevamo bisogno di maggiori forze e attività, fu allora che con il Mit iniziammo a creare iniziative che avevano lo scopo di far capire la condizione che molte vivevano con la reclusione. Volevo che le persone conoscessero la situazione che vivevano le donne trans a Reggio, volevo creare un ponte, un effetto domino di sorellanza e sostegno. Iniziammo a organizzare aperitivi di autofinanziamento per continuare a mandare materiali in carcere, creammo degli swap party in cui i vestiti che venivano portati in associazione sarebbero stati dati alle detenute di Reggio Emilia, promuovemmo con la Libreria delle donne di Bologna l’iniziativa del “libro sospeso” per recapitare loro qualcosa da leggere, iniziammo corsi di serigrafia e aiutammo le donne a fare richiesta per proseguire i percorsi di affermazione di genere al Mit.

Tutte queste azioni legali e di semplice sostegno pratico cambiarono sensibilmente la situazione che avevamo trovato un anno e mezzo prima. Chiaramente l’oppressione vissuta in carcere non avevamo potere di cambiarla e le nostre braccia erano davvero poche per portare dei cambiamenti quotidiani interni alla detenzione, ma ora chiunque avesse la sfortuna di entrare nella sezione Orione sapeva che con noi avrebbe trovato ascolto e sostegno. Contemporaneamente io e l’avvocata di Bianca iniziammo a scrivere lunghe e dettagliare relazioni per convincere il Magistrato di sorveglianza che San Vittore non era il luogo in cui avrebbe potuto trascorrere la sua detenzione e l’estate successiva Bianca fu finalmente trasferita nel carcere di Reggio Emilia. Era consapevole che le mancanze strutturali dell’istituzione penitenziaria avrebbero continuato a farla soffrire, ma finalmente ha potuto trascorrere in modo diverso il suo tempo, assieme ad altre donne trans. Ha cominciato a partecipare a tutte le attività proposte, ha avuto opportunità di nutrire la sua passione per la recitazione attraverso le attività teatrali e un anno fa è diventata la prima donna trans detenuta a iscriversi all’università, scegliendo la facoltà di filosofia. Sta cercando di gettare le basi di una vita al di fuori della detenzione e interviene in ogni manifestazione chiamata dal movimento transfemminista, contribuendo con testi che vengono letti dalle attiviste del Mit, che utilizzano i loro corpi come megafono per dare voce a chi è recluso e oppresso dal sistema penitenziario.
In uno degli scritti di Bianca che ho avuto l’onore di leggere in piazza durante il Tdor di due anni fa lei affermava di essere “trapassata un un’altra dimensione dall’inizio della reclusione. In efetti quello che avviene per molte persone nella detenzione è una morte simbolica, in uno uno stato di abbandono e isolamento che annienta i rapporti con le persone che ami, e ti costringe in una vita senza libertà e diritti, schiacciate da un’istituzione violenta e il tempo passa mentre la vita corre via ti scorre affianco. Questo contributo non ha solo lo scopo di accompagnare il testo scritto da Bianca, vuole anche essere un monito alle persone che lo leggeranno, bisogna creare una rivoluzione radicale anche nelle nostre pratiche di sorellanza. La solidarietà deve essere messa in pratica; anche con risorse limitate possiamo offrire un grande supporto a chi è costretto in carcere, potendo così essere di aiuto concreto e trasformare in realtà gli slogan che portiamo nelle manifestazioni.


BIO: Anna Rosaria D’Amaro, militante transfemminista e antropologa con una lunga esperienza nel lavoro sociale. Ha collaborato con il Mit come operatrice di strada e ha contribuito al progetto “Liberə” nel carcere di Reggio Emilia, dove ha promosso attività come serigrafia, gruppi di auto mutuo aiuto ed educazione alla sessualità per le persone detenute. Inoltre, ha organizzato momenti di ascolto e supporto legale settimanali, offrendo alle persone private della libertà la possibilità di un sostegno concreto. Il suo lavoro si distingue anche per l’impegno a sensibilizzare la cittadinanza, cercando di abbattere i pregiudizi verso le persone detenute.


Fonte: GATTEBUIE. Voci femministe sul carcere, DWF (143-144) 2024, 3-4, p.54-58


Pubblicato

in

da

Tag: